La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

23 febbraio 2010

Conoscere l'Africa 5: Libia, l'inferno dei migranti

African Market di Kufra, sudest della Libia, a poco più di mille chilometri da Bengasi. Il confine con l’Egitto e il Sudan è molto vicino. E’ qui uno dei punti preferiti dai trafficanti che contrattano con i migranti che cercano di lasciare il paese libico nel tentativo di approdare in Italia. L’obiettivo prescelto è la costa del nostro Paese. Malta, con il rischio di diciotto mesi di permanenza in attesa di decisioni, è vista come fumo negli occhi. All’isola dei cavalieri preferiscono la Sicilia, con i suoi punti d’approdo più caldi: Lampedusa, Pozzallo o Portopalo di Capo Passero, poco importa. Kufra è uno dei punti più sensibili per lo smistamento dei clandestini. Questa zona, in passato, ha rappresentato uno snodo importante per le carovane di mercanti che arrivavano dal Ciad, da Borkou o da Ouaddai, intenzionate a raggiungere la costa mediterranea.

A Kufra giungono soprattutto i migranti irregolari che partono dai paesi del Corno d’Africa, Somalia soprattutto, ma c’è anche un consistente afflusso di etiopi ed eritrei. A fare da apripista ai mezzi carichi di clandestini sono spesso i poliziotti libici, come si evince dalle testimonianze rese alle autorità italiane da alcuni somali sbarcati di recente in Sicilia. “Spesso, al fine di evitare problemi con i componenti delle organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei clandestini – afferma un cittadino di Asmara – sono i poliziotti a scortare i mezzi con la gente a bordo e questo dietro una dazione di denaro. E non è detto che tutto fili liscio”.

La struttura di Kufra è già stata oggetto di varie ispezioni, condotte da delegazioni dell’Unione Europea. Il centro di smistamento è stato definito “un punto di partenza al di sopra delle leggi ed in cui si concretizzano i primi contatti tra le organizzazioni criminali che fanno affari d’oro sui viaggi della speranza”.


Il sistema libico di detenzione degli irregolari

Le forze di polizia italiane hanno individuato tutti i passaggi e le strategie della holding criminale che agisce dietro il traffico di esseri umani da immettere sopra le imbarcazioni dirette verso le coste della Sicilia. Quando i camion, carichi fino all’inverosimile di persone, vengono fermati in un posto di blocco, le possibilità sono due: o accordarsi immediatamente con le forze di polizia locali, dietro pagamento di una tangente per il lasciapassare, oppure il camion fa inversione di marcia tornando verso il confine sudanese in attesa che i riottosi si convincano a sborsare il denaro.

Tra l’altro, se l’autista del camion decidesse di scaricare tutti nel deserto, il rischio di morire di sete sarebbe molto elevato poiché spesso si scelgono tragitti in cui per centinaia di chilometri non si trova che sabbia. Una strategia per indurre tutti i migranti a pagare senza battere ciglio. Chi non ha pagato prima, alla minaccia di essere riportato in Sudan, paga dopo. E chi non ha i soldi viene arruolato nel mercato del lavoro nero oppure nella prostituzione, con la speranza di raggiungere la cifra utile a pagarsi il posto in barca.

Nel centro di Kufra i metodi sono degni della peggiore “macelleria argentina”. Ci sono testimonianze agghiaccianti, di persone transitate da questo luogo infernale. Un somalo poco più che ventenne parla di Kufra come di “un luogo di morte, dove guardare in faccia chi opera all’interno del centro può scatenare una reazione bestiale fino a riempirti di botte”. Il rancio quotidiano è da Kolyma siberiana: venti grammi di riso in bianco, se vuoi il pane devi pagare a parte. Ed il riso viene servito molto caldo così da far scottare le mani mentre i carcerieri osservano compiaciuti. E’ un sistema per provocare ulteriore umiliazione. E quando entrano le “squadre della morte”, stupri e violenze diventano all’ordine del giorno. Un ex soldato eritreo, scappato dal suo paese, ha raccontato il modo in cui venivano stuprate le donne davanti ai rispettivi mariti, mentre all’interno delle celle la puzza di umido ed escrementi rendeva l’aria irrespirabile. Kufra, tuttavia, non è l’unico centro di detenzione per immigrati irregolari.

In Niger c’è Dirkou ma si potrebbero citare anche Oujda (in Marocco), Nouadhibou (Mauritania) e l’algerino Tinzouatine, definiti “i posti della tratta umana e dello sfruttamento della condizione di migranti clandestini lungo le rotte del Sahara”. Alcune organizzazioni umanitarie hanno stimato questo business in circa venti milioni di euro l’anno, cifra che comprende anche le estorsioni e le razzie. Tolta la parte spettante ai passeurs ed ai militari, il resto va in tasca alle organizzazioni criminali operative nel Nord Africa.

“Se non hai soldi e non ti danno un lavoro, resti bloccato per mesi e mesi rischiando di impazzire”, afferma un somalo approdato a Portopalo di Capo Passero (Siracusa) nei mesi scorsi. Il gruppo criminale più attivo al momento è quello libico, comprendente anche componenti sudanesi ed un supporto di soggetti egiziani, impegnati soprattutto nella parte finale della filiera, quella della traversata del Canale di Sicilia.

Per raggiungere la somma necessaria a pagarsi il “posto” nella carretta del mare, le donne lavorano come domestiche (quando sono fortunate), gli uomini invece trovano da fare come meccanici o muratori. Più che altro si tratta di lavori di trasporto sabbia o di costruzione di mattoni che vengono pagati pochi spiccioli a fronte di tanta fatica e a patto che il lavoratore stesso rimedi una carriola, altrimenti niente da fare.

In Libia c’è anche un sistema di carceri mascherati da centri di permanenza. Ankar è quello situato all’interno dell’oasi di Kufra. A volte, il camion che trasporta i detenuti si ferma per diverse ore sotto il sole, senza alcun motivo. L’aria all’interno del mezzo si fa presto irrespirabile, il caldo diventa subito soffocante. E più la gente grida più i libici prolungano la sosta mentre la puzza di escrementi e sudore si fa sempre più forte di minuto in minuto.

Parecchie persone vengono arrestate a Bengasi o a Misurata. Qui, quando qualcuno scappa, la reazione della polizia è immediata. Le retate successive portano nel centro di detenzione un numero nettamente superiore di persone rispetto a quelle che si sono date alla fuga. E poco importa se tra coloro che vengono fermati vi siano quelli effettivamente fuggiti. Gli aguzzini sono imperterriti: giorno per giorno vengono allestite squadre di detenuti impegnate nella costruzione di altre strutture interne al campo di detenzione.

Chi non ce la fa, viene dislocato al lavaggio delle macchine dei poliziotti. Terminata la detenzione a Misurata, il migrante pensa di essere pronto per l’imbarco in uno dei tanti natanti pronti a prendere il largo, facendo rotta per l’Italia. “Ed invece – dichiara un cittadino eritreo - le autorità libiche decidono di riportarti a Kufra perché sei stato accusato di immigrazione clandestina e quindi sei passibile di espulsione. In realtà, c’è già l’accordo per venderti a qualche mediatore che, dopo aver incassato la somma stabilita ti rispedisce a Bengasi”.

Così, avanti ed indietro tra Bengasi, Tripoli e Kufra per dissanguare economicamente chi spera di partire via mare, perché ad ogni nuovo arresto si deve pagare. Del resto, dopo il petrolio, lo sfruttamento dei clandestini è una voce molto florida per l’economia libica e il migrante irregolare è considerato come “una quantità di dollari in movimento”. La vendita ai contrabbandieri dei detenuti, da parte delle forze dei polizia, avviene direttamente dal carcere. Gli acquirenti possono anche essere sudanesi. Se “l’acquistato” non ha i soldi, lavora come schiavo fino ad estinguere il debito. I più fortunati, a volte, giungono a Tripoli in uno sgangherato taxi dove si va in cinque o sei, sfruttando anche il bagagliaio. Nel quartiere dei mercanti di uomini avviene la contrattazione. Di notte la polizia mette in atto le retate e i clandestini sono sempre pronti a darsi alla fuga.

Chi ha bisogno di andare in ospedale, per non correre il rischio di essere denunciato, deve trovare un libico che, dietro pagamento, ti presta la sua identità. E per chi è affetto da malaria o, peggio ancora, da Hiv c’è il rischio di un’iniezione letale. “In Libia, l’immigrato irregolare deve guardarsi da tutti, – ci dice Mahmoud, giovane proveniente da un villaggio sudanese – se riesci ad evitare le retate dei poliziotti, spesso finisci picchiato e derubato dalla gente del posto che ti pedina sistematicamente appena capisce che sei un irregolare e che hai dei soldi”.

Superata la fase della detenzione, scampato alle retate e alle aggressioni, racimolata la cifra per pagare l’imbarco su un barcone, il migrante irregolare contatta gli intermediari che molto spesso sono etiopi o eritrei che lavorano per un trafficante locale. Il passaggio dall’inferno libico non è ancora finito, la disperazione è pari alle sofferenze e con la consapevolezza che, pur sopravvivendo al viaggio, non sei niente, solo un immigrato irregolare.

“Questo è peggio della prigionia nel tuo paese ma si parte perché non hai alternative, perché nel mio paese, la Somalia, l’inferno ha una faccia ancora peggiore”. Nella parole di Mahmoud sembra di intravedere la realtà descritta magistralmente da Varlam Salamov ne “I racconti della Kolyma”, libro che nei primi anni Ottanta ha fatto conoscere al mondo l’orrore del sistema concentrazionario sovietico. Le angherie delle guardie, la denutrizione, l’assoluta mancanza di umanità, l’essere quasi in un mondo a parte, le persone ridotte a cose, schiavizzate, vendute e rivendute, senza diritti e solo con obblighi per evitare maltrattamenti e percosse.

In uno dei racconti di Salamov, intitolato “La carriola”, l’autore evoca l’orrore e l’oppressione del lavoro in miniera dove la carriola è un simbolo, come per i migranti irregolari che in Libia cercano questo attrezzo per poter lavorare come muratori e sperare di racimolare il necessario per ottenere un posto in barca e partire per l’Italia.


Le organizzazioni criminali

Gli investigatori italiani ipotizzano una riorganizzazione a breve della componente criminale libanese molto attiva nel traffico di immigrazione clandestina. Questi trafficanti di uomini si sono spostati da un pezzo verso Grecia e Cipro ma potrebbero tornare a guardare alle coste nordafricane. Dalla seconda metà del 2009, in seguito agli accordi del governo italiano con Gheddafi, gli sbarchi hanno registrato un calo. Il leader libico, del resto, continua ad usare il tema immigrazione come una pistola puntata nei confronti dell’Europa e dei paesi del bacino mediterraneo in particolare.


Le rotte cambiano

Per evitare il dispositivo di controllo congiunto italo-libico, i trafficanti hanno modificato le rotte della traversata. Uno dei punti preferiti, da un po’ di tempo a questa parte, è Zliten, non molto distante da Tripoli. Si punta verso il confine egiziano e la navigazione avviene più ad est, verso le coste greche, per poi virare in direzione della Sicilia allungando il tempo e i rischi della navigazione. Questo cambio di strategia trova conferma nelle riserve di carburante che le forze dell’ordine italiane trovano a bordo dei barconi appena sbarcati, cresciuti da 5-6 contenitori a 10-12 taniche di gasolio. “Abbiamo notato, dalla metà del 2009 in avanti, - afferma Carlo Parini, sostituto commissario e responsabile del Gruppo interforze di contrasto dell’immigrazione della Procura di Siracusa – che il numero di sbarchi si è drasticamente ridotto. E’ cresciuto, però, il numero delle persone caricate sulle imbarcazioni. Di recente, in provincia di Siracusa, abbiamo avuto arrivi di oltre duecento migranti in un solo sbarco”.

A conferma di questo, va rilevato il caso del barcone con 250 migranti, tra cui parecchie donne e bambini, rimasto a lungo a fare la spola nel mare in tempesta tra il 24 e il 26 di ottobre scorso, a largo delle coste siciliane, assistito da una nave petroliera che ha lanciato viveri ed acqua a bordo, non potendosi avvicinare per paura di speronamenti, considerate le avverse condizioni meteo-marine.

Anche in questa occasione, si è registrato il comportamento “pilatesco” di Malta che avrebbe addirittura autorizzato le forze libiche ad effettuare il prelevamento dell’imbarcazione. Intervento, poi non concretizzatosi, che poteva rappresentare un precedente in grado di andare ben oltre le soglie del “respingimento”, non tralasciando la circostanza riguardante la presenza a bordo di eritrei e somali, sicuramente dei potenziali richiedenti asilo. Tra l’altro, tornare in Libia dopo il respingimento equivale, per chi incappa nelle maglie del dispositivo di pattugliamento, a ricevere un biglietto di ritorno verso l’inferno.


Il viaggio di Adam

Tra i tanti che sono transitati dalla Libia dopo aver attraversato il deserto, vedendo la morte in faccia, c’è Adam, un giovane ivoriano di 26 anni. Lo incontriamo in Sicilia, in una struttura per richiedenti asilo. La maglietta del Bayern Monaco è quasi una seconda pelle. Attende lo status di rifugiato, che gli permetterà di cercarsi un lavoro, assistito da un avvocato siciliano che gli ha assicurato il patrocinio legale in modo del tutto gratuito. La sua storia è simile a quella di tanti africani che, dopo aver attraversato il Sahara e il tratto di mare che separa l’Africa dalla Sicilia, giungono in Italia con l’intenzione di costruirsi un futuro.

«Ho fatto studi di perito meccanico, puntavo a laurearmi ma la guerra nel mio paese mi ha costretto a scappare. Mio padre è morto e io non avevo altre possibilità: o fuggire o finire arruolato. Ho scelto la prima opzione». Adam racconta il suo passaggio del deserto. «Un primo tratto lo abbiamo fatto con un furgone poi, quando la sabbia si è fatta più profonda, siamo stati scaricati e da lì in avanti abbiamo proseguito a piedi. Con me avevo solo un litro d’acqua che avrei dovuto far bastare per circa una settimana, tanto era il tempo stimato per l’attraversamento della zona desertica». Alcuni suoi compagni di viaggio non ce l’hanno fatta. «Due li ho visti morire e li ho dovuti abbandonare lì, nell’immensa distesa di sabbia. Dovevo proseguire, cercare di giungere al più presto in Libia dove sarebbe cominciata la seconda fase del mio viaggio verso l’Italia ».

Nel paese libico, Adam ha dovuto rinnegare la sua religione per poter trovare un lavoro. «Io sono un cattolico ma in Libia ho dovuto dire di essere un musulmano altrimenti non ti davano nemmeno il diritto di parlare. Ho incontrato gente talmente priva di umanità da non sembrare nemmeno umana». Con altri 27, dopo alcuni mesi di duro lavoro, Adam è stato caricato in una piccola imbarcazione diretta verso le coste italiane.

«Il mare fa meno paura del deserto. Se hai superato il Sahara rimanendo vivo, è già una grande cosa. Prendere il largo a bordo di una qualsiasi imbarcazione è il segnale che stai per farcela, che il peggio è ormai alle spalle, che ti sei lasciato l’inferno libico». Il passaggio in mare non è certo una agevole. Sei costretto a bere acqua salata, l’esposizione continua al sole ti sfianca, gli schizzi di carburante sul corpo sono strali acuminati. L’approdo è sinonimo di salvezza. Adam guarda la piccola imbarcazione che lo ha condotto in Sicilia. «Da sei mesi e mezzo mia madre non ha notizia di me. – aggiunge Adam con una punta di commozione - Le ho inviato una lettera, spero la riceva. Vorrei rimanere in Sicilia, lavorare, avere tanti amici e studiare la costituzione italiana e le leggi del vostro paese. Così posso diventare un buon cittadino. Intanto, ringrazio Dio per avermi fatto superare tante difficoltà».

Il suo è lo sguardo di chi, nonostante tutto, spera nel futuro. Sua madre non sa ancora che il figlio si trova in Sicilia dopo aver attraversato l’inferno della crudeltà e dell’assoluta mancanza di scrupoli, dove l’uomo diventa il peggior nemico dei suoi simili. Come scrisse uno scrittore, nel commentare una delle tante traversate della speranza nel Mediterraneo, “abbiamo, se l’abbiamo, la sopravvivenza ad una catastrofe, lo scampo ad un naufragio. L’esito non è mai una salvezza realizzata”.


Gli investigatori italiani: “Il nostro ruolo è anche garantire alti livelli di soccorso e accoglienza”

Parla Carlo Parini, responsabile del Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della Procura di Siracusa.

Quattro magistrati e sette esperti in tema di immigrazione. Questi i numeri del “Gruppo interforze di contrasto dell’immigrazione clandestina”, costituito nell'ottobre del 2006 dalla Procura di Siracusa, retta dal procuratore Ugo Rossi, unica realtà di questo tipo operativa in Italia. Un pool proveniente da diverse istituzioni dello Stato, coordinati dal sostituto commissario di polizia Carlo Parini, funzionario con una vasta esperienza internazionale. “Nel nostro lavoro investigativo non manca l’aspetto del soccorso. Anzi, spesso siamo impegnati a fianco dei volontari siciliani che assicurano la prima accoglienza e soccorso dei migranti che approdano da queste parti. Un impegno che, per quanto mi riguarda, considero superiore a quello che viene assicurato in altri paesi, ad esempio, come la Spagna”. Il gruppo rappresenta il fiore all’occhiello nelle investigazioni sull'imponente traffico di clandestini nel Mediterraneo. Tra i successi riportati, l’aver sgominato una complessa organizzazione criminale che aveva organizzato il traffico di clandestini cingalesi, attraverso il canale di Suez, poi introdotti in Sicilia e su tutto il territorio nazionale. Interpreti di lingua araba ed una vasta rete di informatori collaborano con questa struttura. Il lavoro del gruppo interforze continua anche dopo gli sbarchi, bisogna identificare e inserire nel data-base tutti gli immigrati, la Procura di Siracusa è così un vero punto di riferimento in Italia, la memoria storica. Parini ha contribuito a riconoscere soggetti che erano già stati identificati ed espulsi, che tornano con il sistema degli alias (utilizzo di altri nomi).

Sergio Taccone, in "Popoli e Missione", gennaio 2010

Sergio Taccone, giornalista, scrive per il quotidiano La Sicilia e per il mensile delle Opere Missionarie Popoli&Missione. Dal 2001 segue gli sbarchi di migranti nella Sicilia sud-orientale. Nel 2009 ha vinto il Premio Internazionale di Giornalismo “Maria Grazia Cutuli”. Autore di un libro inchiesta (Dossier Portopalo, il naufragio fantasma) sulla più grave tragedia nel Mediterraneo del secondo dopoguerra: il naufragio del Natale ’96 in cui persero la vita quasi 300 migranti cingalesi, indiani e pakistani. Dal libro di Taccone è stato tratto anche il documentario Il viaggio di Adamo, realizzato nel 2009.

15 febbraio 2010

Camminare con la Chiesa 2: Messaggio per la Quaresima 2010 del Papa Benedetto XVI

LA GIUSTIZIA DI DIO SI È MANIFESTATA PER MEZZO DELLA FEDE IN CRISTO (cfr Rm 3,21-22)

Cari fratelli e sorelle,

ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici. Quest’anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall’affermazione paolina: La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22).

GIUSTIZIA: “DARE CUIQUE SUUM”

Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare a ciascuno il suo - dare cuique suum”, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio. Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo... non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).

DA DOVE VIENE L’INGIUSTIZIA?

L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c'è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro... Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare - ammonisce Gesù - è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?

GIUSTIZIA E SEDAQAH

Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime. Sedaqah infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr Es 20,12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr Dt 10,18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha ‘ascoltato il lamento’ del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr Es 3,8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr Sir 4,4-5.8-9), il forestiero (cfr Es 22,20), lo schiavo (cfr Dt 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia?

CRISTO, GIUSTIZIA DI DIO

L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio... per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel Triduo Pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia. Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, 30 ottobre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

1 febbraio 2010

Capitolo 10 - Acqua per tutti

BONITASKU DI IAGU SALGADU I BONITU, MA I KANSADU BIBI
(proverbio locale: la bellezza dell’acqua di mare è grande, ma è difficile berla)
(interpretazione: un lavoro può sembrare bello, ma farlo può essere faticoso)

29 ottobre, Bigene
Finalmente riprendono le evangelizzazioni nei villaggi. La stagione delle piogge sta per terminare, e le strade possono essere percorse (con le consuete difficoltà) dalle nostre macchine (anche le suore hanno il loro fuoristrada).
La prima catechesi a cui partecipo, con suor Teresa, è a Facam. Si notano subito una grande comunione e una precisa organizzazione: il catechista Uié, che qui abita con la sua famiglia, e alcune altre persone già battezzate agevolano notevolmente l’afflusso di tutti gli altri abitanti che partecipano al nostro incontro. La partecipazione è ottima, e il lavoro di Uié, con la sua testimonianza e le sue catechesi, si nota dalla partecipazione attiva di varie persone, giovani e adulti, di questo bel villaggio immerso nella vegetazione.

30 ottobre, Bigene
Con il catechista Abdù mi reco nel villaggio di Mambuloto. Qui la presenza dei musulmani è forte e sentita. Ma anche la presenza dei cristiani è considerevole. Devo spiegare una cosa, che mi sembra bella e significativa: in questi luoghi, quando una persona inizia a frequentare i primi incontri di evangelizzazione, è come se avesse già scelto di essere cristiana. Coloro che frequentano le catechesi tenute dai padri, dalle suore, o dai catechisti, anche se non hanno ancora ricevuto il battesimo, si sentono già cristiani, e sono considerati tali anche dagli altri.
La situazione di questa comunità di Mambuloto è particolare: accoglie la catechesi da ben quattordici anni (uno dei primi villaggi della zona ad iniziare l’evangelizzazione) e non vi è ancora un battezzato. Il motivo è la poligamia diffusa in tutto il villaggio. Anche i giovani risentono di questo esempio degli adulti, e lo assorbono. Parlando con gli anziani, sono loro stessi a spiegarmi che non possono ricevere il battesimo, perché hanno più mogli, ma non possono rimanere senza catechesi, perché sono cristiani.
Questo è uno dei grandi problemi dell’evangelizzazione. Non si può chiedere ad un uomo di abbandonare le mogli e i figli per ricevere il battesimo. E non si può battezzare chi vive nella poligamia. Il Signore, molto più grande di noi tutti, legge nei nostri cuori e nei cuori di questi fratelli, che hanno già fatto la scelta di essere cristiani anche se non possono vivere il sacramento del battesimo. Desiderano la salvezza di Cristo, ma non la possono realizzare: non sono lontani da Dio! Forse sono più vicini a Dio di tanti battezzati che vivono come se non fossero battezzati.

31 ottobre, Bigene
Il sabato sera si recita il Rosario nella chiesa di Bigene. A volte ci sono solo pochi bambini, altre volte ci sono anche dei giovani. Questa sera accade un fatto che illuminerà molte altre serate: dopo la recita della preghiera, due giovani, che non conosco, mi chiedono di poter iniziare la catechesi cristiana.
Non mi sembra vero: è il segnale che aspettavo da tempo! Il modo migliore per terminare il mese missionario di ottobre e continuare la missione per tutto l'anno. Ringrazio il Signore con tutto il mio cuore: io sono tanto felice! Siatelo anche voi.

1 novembre, festa di Tutti i Santi, Bigene
Riprendo la S. Messa domenicale nei villaggi: dopo la celebrazione principale a Bigene alle 9,30, mi reco oggi a Facam per la celebrazione alle 11,30. La bella comunità di Facam è già radunata nella cappella del villaggio: davanti i bambini, con i vestitini della festa, tutti in fila, seduti sui loro piccoli sgabelli. Dietro i giovani e gli adulti. Le mamme che allattano i loro piccolini rendono la scena ancor più reale: il Signore entra nella vita di questo villaggio con la sua Parola e la sua Eucaristia. Anche qui crescono i santi…

2 novembre, Bigene
Giorno dedicato ai defunti e alle visite ai cimiteri di tutte le nostre città e paesi italiani. Ma non qui. A Bigene non esiste il cimitero! Questa è una scoperta, che sa dell’incredibile, ma è proprio così. A Bissau ci sono due cimiteri: uno antico, con le tombe degli ex-colonizzatori portoghesi, ed uno più recente, con i defunti locali. Non li conosco bene, ma mi par di capire che sono poco frequentati.
Ma a Bigene, e in tutti i villaggi qui attorno, non esiste un cimitero. Non è che la gente non muore (anzi!), ma è perché i defunti vengono seppelliti vicino alla propria abitazione. In qualche caso, fin sotto le semplici mura della casa. In questo modo rimane evidente, nello spirito africano, che i defunti non sono lontani dalla vita dei loro cari, sono invece molto vicini ad essi. Qui dovrei aprire una lunga pagina per spiegare il culto verso i propri antenati nelle Religioni Tradizionali Africane. Ma il mio semplice diario dovrebbe bloccarsi per troppo tempo. Mi limito a scrivere che l’Africano sente molto la presenza dei propri defunti. Senza tanti inutili fiori o loculi dispendiosi, l’Africano “vive” una profonda comunione con i suoi defunti, ha un culto inesauribile verso di essi, quasi un rapporto religioso sacrale. Se un proprio defunto è stato una persona di saggezza, continua a vivere vicino a Dio, e diventa un intercessore presso Dio.
Non vi sembra una sensibilità ed una religiosità che dà onore a questi popoli, a volte denigrati perché ritenuti inferiori alla nostra civiltà? Mi viene in mente quella Parola: “… sepolcri imbiancati siete …”.
Niente cimiteri, ma spazi sacri attorno ai villaggi, dove sono sepolti molto semplicemente tutti i defunti: avvolti in un lenzuolo, a contatto con la nuda terra. Alcune etnie usano anche gli spazi attorno ad un grande albero: così i loro defunti riposano all’ombra (!). Ma attenzione: prima di salire sugli alberi, come esperti conoscitori di safari africani, informatevi bene che non sia un albero con i defunti attorno. In quel caso, sarebbe un albero sacro. E passereste i vostri guai a salire su un albero sacro…

7 novembre, Bigene
Oggi partecipo alla catechesi di apertura nel villaggio di Kissir assieme ad Alfredo, il catechista. Alfredo è una grande persona: è insegnante nella scuola pubblica, ma per arrotondare il misero stipendio svolge anche il lavoro di guardiano notturno presso la scuola della missione. Sua moglie è la cuoca nella casa delle suore. Con i loro sei figli sono l’unica famiglia cristiana di Bigene. Avete letto bene! Non vi sono altre famiglie cristiane nel paese di Bigene. Vi sono alcuni giovani battezzati; anche alcuni adulti sono cristiani e ricevono i sacramenti. Ma famiglia cristiana, con il matrimonio celebrato in chiesa, è solo questa. Una bella responsabilità che Alfredo vive, con la sua brava sposa, donando a tutti una bella testimonianza di cristiano adulto. I giovani hanno bisogno di vedere degli adulti testimoni: questa è una delle tante fatiche di questa piccola comunità cristiana. Grazie a Dio, almeno una famiglia, che può dare un bel segnale ai giovani, c’è.
L’evangelizzazione a Kissir è faticosa: il gruppo dei partecipanti è limitato, e i giovani sono poco motivati: mancano gli anziani. Accade così in tutti i villaggi: se vi sono degli anziani coinvolti nella catechesi, i giovani si sentono come guidati e sostenuti dalla loro presenza. Se non ci sono anziani, i giovani si sentono smarriti, quasi intimoriti.
Sembra il contrario di quanto accade, a volte, in Italia. Se la chiesa è frequentata dagli anziani, i giovani si vergognano! Qui è diverso: se non c’è la persona anziana a segnare un cammino, il giovane si sente insicuro nei suoi passi.
Io non credo che questa sensibilità dei giovani guineensi sia sbagliata. Che dite???
Ritornato alla casa della missione, mi arriva, via internet, una notizia meravigliosa: i piccoli amici di Segezia (Foggia), dove sono stato parroco per quindici anni, stanno mobilitando tutta la loro scuola elementare, con insegnanti e famiglie, per raccogliere materiale scolastico da spedire ai bambini della scuola di Bigene.
Guidati dal loro insegnante, i ragazzi di quinta elementare e delle altre classi hanno organizzato un mercatino divertente, che durerà tre giorni. Accanto alla vendita dei “dolci dell'amicizia”, fatti dalle mamme, ci sono tanti giochi, libri e oggetti che, a loro volta, sono acquistati dai bambini di altre classi, ma anche da tutti coloro che hanno partecipato a queste giornate. Il ricavato del mercatino sarà usato per acquistare materiale scolastico che sarà spedito in container per i bambini della scuola della missione di Bigene.
Devo dire che sono tanti gli amici che, a Foggia e provincia, si stanno mobilitando per la raccolta di questo materiale, rispondendo all’invito che l’amico don Guido, parroco di Segezia, ha rivolto ai suoi fedeli:
“Un container partirà da Foggia per Bigene (Guinea-Bissau), dove don Ivo è missionario. Questa occasione straordinaria ci permette di aiutare don Ivo con una raccolta di materiale che arriverà direttamente nella sua missione, e che sarà distribuito, senza intermediari, nelle opere della missione stessa. Don Ivo, dopo una verifica con le suore Oblate che operano da tempo a Bigene, propone queste precise raccolte di materiale. La scelta è quella di sostenere i bambini della scuola cattolica di Bigene (200 bambini), e delle scuole disperse nei villaggi, seguite attraverso la evangelizzazione nei villaggi stessi. In particolare occorrono: + maglioncini autunnali o invernali (ma leggeri) per i bambini dai 5 ai 10 anni. Qualcuno potrebbe stupirsi: ma il motivo c’è! A gennaio e febbraio, la temperatura scende anche a Bigene, fino ai 20 gradi. Non è freddo (per noi), ma per i bambini che vanno a scuola, vestiti solo di una canottiera o di una camicetta estiva, fa freddo, e le insegnanti devono far eseguire attività motorie nella prima ora di scuola di ogni giorno, perché i bambini tremano dal freddo. + quaderni a righe per scrivere: non a quadretti, devono essere con le righe. + matite per scrivere sui quaderni: le penne biro non durano (per le condizioni climatiche) e i pennarelli ad alcol sono inutili. Non matite colorate, ma matite semplici per scrivere. + gomme per cancellare le scritte delle matite sui quaderni. + temperini per appuntire le matite. Tutto questo è materiale prezioso per i bambini. Ma attenzione: si raccoglie solo questo materiale, e non altro. Il materiale raccolto sarà consegnato presso la parrocchia Immacolata di Fatima a Segezia”.

11 novembre, Bigene
Catechesi di apertura nel villaggio di Bambea, vicino a Bigene. Mi reco al primo incontro assieme a suor Miris e suor Teresa, che conducono la catechesi settimanale in questo villaggio. Anche qui la situazione è molto impegnativa. Le persone ci sono, anche gli anziani, ma è accaduto un fatto preoccupante durante l’estate scorsa. Un giovane si è ammalato per lungo tempo, e i suoi amici si sono rivolti ad uno stregone per chiedere aiuto. Questo personaggio negativo (che non conosco) ha affermato che la malattia del loro amico era dovuta ad una specie di maleficio causato da una donna anziana del posto. Il risultato finale è stato una spedizione punitiva che questi giovani hanno compiuto, andando a picchiare malamente la povera donna anziana. Ora il villaggio si trova diviso e insicuro, in un clima di sfiducia reciproca. La cosa ancor più grave è che alcuni di questi giovani fanno parte proprio del gruppo della catechesi.
La conoscenza di Gesù Cristo non ha inciso nulla nella loro esistenza? È difficile dire che cosa accade nell’animo di una persona. Ancor più difficile dire cosa accade nell’animo di una persona africana.
Gli stregoni esistono in tutto il mondo, inutile sorprenderci: magari hanno altri nomi più invitanti, ma ci sono. Tanti. Troppi. Se è vero che nelle grandi città d’Italia ci sono più “negozi” di maghi che parrocchie, è meglio che nessuno pensi in modo riprovevole dei miei nuovi amici africani.
Userò questa esperienza negativa per far comprendere a tutti i cristiani di Bigene e dei suoi villaggi che gli stregoni non possono essere uomini di Dio: non producono pace e gioia, ma sconforto e divisioni. Ma i cristiani che mi ascolteranno sono la minoranza: è missione!
Terminato l’incontro mi reco con le suore e con alcune donne a visitare questa vecchietta che è stata picchiata selvaggiamente. Non dice una parola. Niente. Un uomo anziano, che vive vicino alla sua piccola abitazione, si avvicina con uno sgabello per farmi sedere: è un gesto di grande accoglienza, dentro un silenzio generale fatto di paura e insicurezza. L’evangelizzazione, in questa terra di Bigene, è appena all’inizio.

12 novembre, Bigene
Al mattino mi reco con suor Rosa per la catechesi a Talicò, sulla strada per Farim. Un bel gruppo di persone, attente e motivate. Nel pomeriggio vado a Farea, dove c’è una bella comunità cristiana sostenuta dai catechisti Djamba e Abdù: si vede il beneficio della loro presenza in questo villaggio. Il gruppo di persone è numeroso e attento; vi sono anche dei battezzati e dei giovani che stanno compiendo il percorso dei catecumeni. Mi spiego: a tutti coloro che lo chiedono, si offre la prima evangelizzazione, chiamata anche pre-catecumenato. Si parte da zero: Dio è Padre, Dio è Creatore (e questo, gli Africani, lo sanno molto bene), ma Dio parla agli uomini anche attraverso i patriarchi, i profeti, il popolo di Israele. È la storia della salvezza. Quando finisce il percorso sulla storia della salvezza, che ha il suo centro in Gesù Cristo, si propone il percorso di catecumenato che termina con il battesimo. È un cammino lungo: partendo da una totale non conoscenza della religione cristiana, ci vogliono anni e anni di catechesi per aiutare le persone ad una scelta responsabile verso il battesimo e le sue esigenze.
Poi Farea ha un’importanza speciale per me: qui è nato il primo piccolo Ivo!!! Purtroppo Ivo ha avuto la malaria durante l’estate, e la mamma l’ha portato in un villaggio vicino al Senegal, per curarlo meglio. Non sono ancora rientrati: speriamo di rivederlo presto in piena salute, il mio leoncino!
In serata celebro per la prima volta la Messa feriale in chiesa per tutti i fedeli di Bigene. Durante i giorni settimanali ho sempre celebrato il mattino presto, nella piccola cappella delle suore. Ora che sono più stabilmente a Bigene (e che la mia salute continua a fare la brava!), posso celebrare il giovedì sera nella chiesa della missione. Vi partecipano molte persone, sembra quasi una Messa domenicale. Sono sorpreso e felice. Non riesco a predicare in crioulo (per la domenica mi preparo l’omelia scritta con l’aiuto di qualche insegnante) e mi lascio andare in lingua portoghese. Mi sembrano tutti molto attenti: in realtà, sono solo incuriositi nel sentirmi parlare la lingua ufficiale della Guinea-Bissau, che pochissimi usano a Bigene.

13 novembre, Bigene
La catechesi a Liman è affidata a me. Questo è il villaggio dove vive la piccola Ivone Maria: ci vado molto volentieri! Il villaggio è piccolo, e forse si trova in un disagio ancor più grande degli altri: non c’è la scuola, i bambini rimangono senza alcuna istruzione. I giovani e gli adulti non parlano nemmeno il crioulo: senza interprete la comunicazione è molto difficile. Anche la catechesi risente di questa situazione: pochi vi partecipano, e solo due-tre uomini adulti intervengono nei momenti di condivisione.
Nel pomeriggio accompagno suor Miris vicino alla frontiera, al villaggio di Bucaur: questo è il villaggio che offre grandi prospettive. Sono più di mille i suoi abitanti, e più di cento, tra giovani e adulti, partecipano alla catechesi settimanale. Il fatto sorprendente è che in questo villaggio vi è pure una piccola moschea, e quindi si dovrebbe pensare che siano quasi tutti musulmani. E non solo: il villaggio è formato da varie etnie, tra cui i mandinga. Questa etnia è famosa per essere di religione musulmana, per una scelta fatta, in passato, da parte del suo re (anche in Africa ci sono i re! non lo sapevate?). La cosa sorprendente è che anche alcune persone di etnia mandinga partecipano alla catechesi!
È sempre gioioso e confortante arrivare sotto il grande mango, dove tutti sono già allineati con i loro piccoli sgabelli che si sono portati, sulla testa, dalla loro abitazione. L’incontro è sempre ben partecipato e animato, con canti, interventi, domande. I giovani sono molto attenti, gli anziani seguono con compiacimento, come se dicessero: “Guarda, padre, come sono bravi i nostri figli!”. È veramente una soddisfazione venire in questo bel villaggio. Al termine della catechesi, il giovane che è incaricato di organizzare l’incontro, membro del consiglio del villaggio, a nome di tutti i presenti ci espone il meraviglioso desiderio del gruppo che partecipa alla catechesi: costruire la loro cappella per riunirsi a pregare alla domenica. Attualmente si riuniscono tutte le domeniche, da soli, per pregare nella scuola. La catechesi, invece, si tiene sotto il grande albero al centro del villaggio. La loro richiesta è un segno del desiderio di crescita nella fede: non vogliono sentirsi inferiori ai musulmani. E non lo sono! Sono da ammirare questi giovani: istruiti (parlano il portoghese), vivaci, attenti. Penso che in questo villaggio il Signore continuerà a portare le sue benedizioni, e se le meritano tutte!

14 novembre, Bigene
Con suor Teresa mi reco a Tabajan per la catechesi. La grossa novità di questo villaggio, sulla strada per Farim, è la costruzione di una nuova cappella per la comunità cristiana che sta nascendo. Oltre alla catechesi iniziale, vi è anche la preparazione al battesimo per un gruppo di catecumeni. La cappella è piccola, molto oscura, con una sola porta e due piccole finestre: l’oscurità interna alla costruzione è necessaria per far uscire all’esterno i piccoli insetti fastidiosi. La cosa che trovo meravigliosa è che la cappellina se la sono costruita proprio loro, con le loro mani: hanno impastato i mattoni di argilla, essicandoli poi al sole. In seguito li hanno sistemati con maestria, lasciando lo spazio per le due finestre e la porta. Il tetto ha una struttura in legno, su cui è appoggiata la paglia per riparare dalla pioggia e dal sole. Bravi! Anche se la costruzione di questi edifici rientra nella normalità delle capacità di queste popolazioni: senza architetti e geometri, senza costruttori e operai, gli uomini si mettono assieme e, usando il materiale naturale di cui dispongono, si costruiscono le proprie abitazioni. A me piace questo fatto!
Nel pomeriggio accompagno il catechista Djamba per la catechesi nel villaggio di Udas. Questa è una situazione particolare: il villaggio, di etnia mandinga, è tutto musulmano. Ma vi é un piccolo gruppo, di etnia mandjako, che frequenta la catechesi. È proprio il gruppo di catechesi più piccolo, una quindicina di persone in tutto, ma vivaci e partecipi, e si sente… Normalmente nella etnia dei balanta-mané, che rappresenta la maggioranza della popolazione del settore di Bigene, le donne non parlano, si mettono tutte in un lato, ascoltano ma non partecipano alla condivisione che segue la catechesi. Le donne dei mandjako sono invece più partecipi: parlano, chiedono, intervengono… Sembra quasi che, in questa etnia, siano gli uomini a rimanere un po’ in disparte! Mi vien da pensare: vuoi vedere che la razza italiana ha origini dalla etnia dei mandjako??? Sono sempre le donne a parlare per prime…
Alla sera mi accorgo che la temperatura è scesa di qualche grado: questa notte dormirò con il lenzuolo, è meglio!

15 novembre, XXXIII domenica ordinaria: Bigene
Nel pomeriggio ho il primo incontro con i giovani di Bigene che desiderano iniziare la catechesi per ricevere il battesimo, o che già hanno seguito, in passato, la catechesi iniziale ed ora sono catecumeni. Sono una ventina in tutto: mi sembra che seguano con attenzione la mia proposta. Rimango sorpreso della mia capacità di esprimermi in portoghese, e questo mi rallegra, perché la mia conversazione si rende sempre più sciolta.
La difficoltà principale di questi giovani di Bigene è la quasi totale assenza di esempi adulti da seguire. Nelle evangelizzazioni che si svolgono nei villaggi attorno a Bigene ci sono sempre adulti e anziani che partecipano, e la sola loro presenza diviene un forte incoraggiamento per i giovani. Nella società africana, soprattutto nei piccoli villaggi, gli adulti, che qui chiamano uomini anziani, sono di esempio per tutti. E quando parla un uomo anziano, le sue parole e le sue scelte diventano valida testimonianza ed esortazione per tutte le generazioni più giovani. Ma questo non avviene a Bigene. Sono solo tre o quattro gli uomini adulti che frequentano la S. Messa: i giovani, senza esempi da imitare, fanno scelte dettate dall’emozione del momento, e facilmente si lasciano andare, nella loro inesperienza, a repentini cambiamenti.
Spero di farmi amico di questi giovani: oltre ad una sana catechesi, forse occorre proprio una forte amicizia che li renda capaci di sentirsi meno soli nelle scelte che stanno compiendo.

17 novembre, Bigene
Vicino alla casa per i missionari, la cui costruzione continua senza interruzioni, ma con la lentezza dovuta alla mancanza degli strumenti adatti (non è una casa fatta con argilla e paglia, come la maggioranza delle abitazioni, ma con blocchi di cemento costruiti sul posto), inizia il grande lavoro per trovare l’acqua. L’impresa non è facile: non si tratta di un semplice pozzo: sarebbe insufficiente e insicuro. Si tratta di un foro profondo, per trovare acqua buona e sufficiente.
Mi spiego meglio: a Bigene l’acqua c’è, la si trova a 20-25 metri. Ma a quella profondità è insufficiente: prima dell’estate (e delle grandi piogge) i pozzi si seccano, con disagi impensabili per noi europei. Inoltre, non esistendo alcun servizio di fognatura, e nemmeno un servizio cimiteriale (i defunti vengono sepolti accanto alle abitazioni), l’acqua potrebbe essere non potabile, o addirittura causa di infezioni! Oltre i 30 metri l’acqua è salata, a causa delle infiltrazioni del mare. Un foro deve arrivare almeno a 60 metri, però potrebbero non bastare, e allora occorre scendere fino ai 100, a volte 200 metri. Durante l’esecuzione del foro si potrà capire fino a quale profondità bisogna scendere.
Perché un foro così profondo è necessario? Se l’acqua dovesse servire solo a me, non mi farei tanti problemi, farei un pozzo di 20 metri e basta. Ma nel territorio della missione, dove si sta costruendo la casa per i missionari, c’è la scuola tenuta dalle suore Oblate con 170 bambini (diventeranno 200-250 nei prossimi anni), senza acqua, con notevoli difficoltà per la loro igiene (l’acqua, attualmente, è trasportata alla scuola con la macchina). Inoltre, nello stesso territorio della missione, c’è anche il centro per i bambini denutriti. Per due giorni alla settimana arrivano decine e decine di mamme con i loro bambini. E anche qui ci sono i servizi igienici senza acqua. Ancora: un foro profondo assicurerà acqua abbondante e buona non solo per la scuola e il centro di alimentazione, oltre che per la casa dei missionari, ma anche per le famiglie che risiedono vicino a questo territorio.
Il lavoro è notevole e la spesa è imprevedibile: è il caso di fare qualche “cerimonia” particolare…. e così chiedo agli amici di pregare per trovare acqua buona e abbondante a pochi metri!!!

18 novembre, Bigene
La trivella della perforazione si rompe. Gli operai sono attrezzati: riescono, con i loro mezzi, a compiere la necessaria riparazione. Sono veramente dei bravi operai: io non capisco niente di questo lavoro, ma vedo che si impegnano con competenza e sudore di fronte! Speriamo per domani…

19 novembre, Bigene
La perforazione prosegue senza pause, e noto uno strano ottimismo negli occhi del direttore dei lavori: analizzando il materiale argilloso che fuoriesce dalla perforazione, mi spiega che l’acqua si sta trovando già ad un livello di 19 metri. Bisogna ora vedere se è una falda profonda, e se è potabile.
Nel pomeriggio arriva la conferma. Io mi sento emozionatissimo, come uno scolaretto in attesa della pagella. Gli operai, tutti esperti, mi guardano quasi con compassione. La falda arriva fino a 32 metri! Quindi è abbondante: si possono prelevare 1.000 litri di acqua all’ora. Questo significa acqua sufficiente per la scuola della missione, per il centro nutrizionale, per tutti. Che grande cosa l’acqua. È un grande dono di Dio! Rimane da verificare se è buona da bere. Il direttore dei lavori tira fuori i suoi strumenti per le analisi: non potete immaginare la mia gioia… l’acqua è buonissima!!! Fuoriesce dal terreno ad una temperatura di 30,5 gradi ed ha una presenza di sale nella norma. Non si può dire che sia fresca… ma è potabile. Che grande cosa!!!! Le buone analisi saranno poi confermate in laboratorio.
Cari amici, vi ringrazio con tutto il cuore: grazie per le vostre preghiere (alcuni di voi mi seguono quotidianamente su facebook). Grazie! Meglio di così non poteva andare, meglio di ogni ottimistica previsione. Ero impaurito da questo lavoro, che poteva essere assai più complesso e costoso.
Grazie mio Signore. Tu hai creato l’acqua, e l’hai messa buona e abbondante vicino alla mia casa, in questa terra non lontana dal deserto del Sahara. Ti voglio ringraziare tutte le volte che mi potrò dissetare a questa sorgente. E benedici questa missione: Tu sei acqua viva che disseta in eterno.

20 novembre, Bigene
Alla grande gioia dell’acqua, si aggiunge una vita nuova: è nato Ivo tre! Nel villaggio di Suar, dove le suore fanno la catechesi. La mamma è rimasta molto sofferente per una grave emorragia. Ivo è nato nella capanna, assistito solo dalle donne confinanti. Ma il Signore donerà alla mamma forza e coraggio, e le povere medicine che troverà a Bigene le saranno sufficienti per riprendersi.
Questa volta il nome è stato deciso con la complicità di suor Rosa. Le hanno chiesto quale nome mettere al bambino appena nato, e lei ha proposto il mio nome, subito accettato dal villaggio (la mamma non era presente, troppo debole per presenziare alla catechesi). E così mi ritrovo con un numero di eredi che aumenta. Nuove preoccupazioni: benvenute!

26 novembre, Bigene
Come se non bastassero i tre Ivo… nasce anche Angelo! Questo fatto mi sconvolge. Di gioia. Succede così: nasce il bambino figlio di due bravi genitori catecumeni nel villaggio di Farea. In questo villaggio c’è già un Ivo (il primo: non lo vedo da molto tempo. Ha preso la malaria e la mamma lo ha portato per le cure tradizionali in un villaggio del settore di Farim; ho saputo che sta meglio). Il papà mi cerca perché vuole mettere il nome al bimbo, e mi chiede come si chiamava mio padre. “Angelo” gli dico, con sorpresa per la sua curiosità… “Angelo si chiamerà mio figlio!” mi risponde con un grande sorriso.
Lo guardo smarrito per alcuni istanti. Lui capisce che sono in stato confusionale, ed allarga il suo sorriso. Voi sapete quanti denti hanno in bocca gli Africani??? In questo momento ne vedo un centinaio…
Ma come fa questa gente a volermi così bene? Non ho fatto ancora nulla per loro, e mi trovo questo bravo papà che mette il nome di mio papà al suo terzo figlio (gli altri due si chiamano Maria e Michele: bei nomi!). Non avrei mai pensato che questa cosa potesse accadere.
Per tutto il giorno penso a mio papà, alla sua vita dura (era il primo figlio, orfano a soli quattordici anni per la morte di suo padre durante la prima guerra mondiale) e ai suoi sacrifici. Un semplice contadino che non è mai uscito dall’Italia e che si ritrova, dopo tanti anni, ad essere ricordato in una capanna dell’Africa Occidentale. Un piccolo Angelo africano che porta il nome di un uomo nato e vissuto sempre a Cervarese S. Croce, nella pianura padana.
Il mio stato confusionale continua per tutto il giorno: comincio a capire cosa può essere il famoso “mal d’Africa”!

4 dicembre, Bigene
È un giorno triste. Suor Rosa non sta bene, e deve rientrare in Italia per fare delle analisi complete, che qui sono impensabili. Speriamo che possa curarsi bene e tornare presto in piena salute.

10 dicembre, Bigene
Il container parte da Foggia per Bigene. Questo è il primo. Parte con tutto il materiale che aspetto per arredare la casa in costruzione e per i bambini della missione. Unica difficoltà: sono arrivati a Segezia troppi pacchi di quaderni e magliette per bambini (177 in tutto!!!). I 50 pacchi che non sono entrati partiranno in un prossimo container. Un GRAZIE ENORME ai tanti amici che hanno collaborato: siete stati GRANDI.

18 dicembre, Bigene
Splendida giornata di evangelizzazione. Oggi sono stato nei villaggi di Liman e Jamban, e il tema del mio annuncio era il Primo Comandamento. Qui, tra le più forti religioni tradizionali/animiste dell'Africa, è assai difficile proporre con precisione questo argomento. E sappiamo bene che il Primo Comandamento è anche il più importante di tutti gli altri: lo devo presentare proprio bene! Alla fine, gli uomini-grandi (le persone autorevoli del villaggio) mi ringraziano per la chiarezza dell’insegnamento della Chiesa Cattolica. Per me è il massimo, non poteva andare meglio di così. Questa è vera gioia, amici. La gioia di sentirmi partecipe di un avvenimento più grande di me, perché è di Dio.

24 dicembre, Bigene
Il modo più simpatico per raccontarvi l’incontro che segue è trascrivere la chat che ho fatto con Rosa: io mi sono divertito! Siamo alla vigilia di Natale.
L'ho visto!
Voglio sapere, cosa?
Per la prima volta, l'ho visto...
Gesù Bambino? (la giovane Foggiana mi crede un mistico…).
Non era proprio Gesù Bambino, ma era vicino alla chiesa di Bigene. Ci siamo guardati negli occhi.
Con un leone? il leone di Narnia?
Per un attimo siamo stati fermi entrambi, guardandoci fissi.....
uuffff..... come sei prolisso! ma tanto lo so che ti diverti così, con poco!
Ma non è scoppiato l'amore.
Al massimo per lui, chissà, ha pensato: "buona carne bianca!"
Il mio primo incontro con il sig. Cobra!
Cavolo! (la ragazza ama le verdure) che schifo, un cobra, preferivo il leone!
Che bello…
bbbbrrrr!!! bello? pauroso! mi fanno ribrezzo anche le piccole bisce di campagna! Non gli sono piaciuto, si è girato dall'altra parte e se ne è andato. Ho visto come si muove: è maestoso.
Eri solo?
Non è come gli altri serpentelli che vanno a zig-zag, lui va diritto, spedito, veloce. Ho visto la lucentezza delle sue squame sotto il sole: una meraviglia della natura. Ha fatto tre o quattro metri in un secondo, poi si è fermato, ha alzato la testa e si è girato per guardarmi di nuovo. Un giovane stava per tirargli contro un bastone per farlo scappare. Io gli ho fatto il segno di fermarsi, lo volevo guardare ancora bene, ma è stato un attimo: lui è sparito sotto le foglie e sotto gli arbusti.
wow.... meno male che non si è avvicinato!
Mi ha impressionato per la sua bellezza e la sua velocità, in totale silenzio.
Cari amici: anche questa è fatta! Prima o poi doveva accadere, e devo dire che… è stato bello!!! A Bigene, anche i cobra si avvicinano alla chiesa! Il prossimo anno ne metto uno nel presepe (se qualche buon Napoletano me lo procura…).

Mi rendo conto di essere in ritardo nella spedizione di questa puntata del mio diario: quando leggerete queste righe sarà febbraio. Ma cercate di capirmi: le mie giornate sono sempre più piene, e di questo sono contento. Sono qui per fare il missionario, non il giornalista. Vero che mi capite? Vi consiglio di aderire a facebook (se già non lo avete fatto): questo strumento di comunicazione in internet vi permetterà di ricevere mie brevi notizie aggiornate quasi tutti i giorni. E poi c’è un’ultima cosa che vi voglio scrivere: vi siete accorti che in questa puntata non ho parlato di ricoveri in ospedale??? Finalmente la mia salute è stabilmente buona, e sto proprio bene, ringraziando Dio. Grazie anche alle vostre preghiere: mi fanno bene!

Pe. Ivo Cavraro, Curia Diocesana – Missão de Begene, Av. 14 de Novembro, apartado 20
1001 Bissau Codex, GUINÉ-BISSAU